lunedì 16 settembre 2013

Chi trascura l'ambientazione merita la frusta degli Harkonnen

Paul Muad-dib e i suoi Fremen: l'ambientazione di Herbert
per la saga di Dune è monumentale e coerente con se stessa
C'è una cosa che non sopporto in certa narrativa dilettante ed è la superficialità con cui vengono affrontate e gestite le ambientazioni nei racconti e nei romanzi dove questa dovrebbe essere rilevante. Se scrivo un romanzo d'amore a Modena, non importa che io scenda tanto in particolari parlando di Modena (anche se male non farebbe) e non non importa neanche che io stia a parlare troppo della città o a pensarci: Modena è lì. Tutti la conoscono. Se però scrivo un fantasy o un racconto di fantascienza devo innanzitutto creare un terreno comune con il lettore, su cui poi edificare l'impianto narrativo. Se io ritengo scontati degli elementi che sono ignoti al lettore, questi non salirà con me lungo i pendii della storia. Però il "male" che colpisce la narrativa degli esordienti è ben peggiore del non descrivere: è descrivere male. Perché se io creo un'ambientazione fantastica per il mio racconto ci si aspetta che questa sia plausibile. Plausibile significa che questa possa reggersi anche senza il racconto! Ossia che si possa magari riutilizzarla e che "profumi" di credibilità. Servono dettagli, pennellate di colore, certo. Ma serve anche aver fatto i compiti.
È un po' quello che abbiamo detto nell'articolo su come scrivere racconti fantastici pubblicato in Altrisogni 4.

L'autore deve aver pensato a quell'ambientazione. Deve averla strutturata, ragionata, approfondita. Non sto dicendo che si debba fare come Tolkien. Dico che un autore di fantastico che ha anche un background da game master di gioco di ruolo è spesso avvantaggiato e certe cose le capisce al volo. Un autore di questo tipo sa che deve pensare al setting come a qualcosa di autonomo e in grado di funzionare. E a qualcosa di coerente con se stesso. Se scrivo un racconto ambientato nel 2200 a New York non posso descrivere la Grande Mela e la vita dei suoi cittadini come se tutto fosse ambientato nel 1990. E se invece racconto di un impero di Elfi con i loro nomi musicali e luoghi come Rivargento, Castelferro, Argentelande, poi non posso inserire la città di "Greysteel". Non certo con un nome inglese. Tuttavia la nostra editoria (spesso la piccola editoria) è piena di episodi di questo tipo. Le possibilità a disposizione degli aspiranti autori sono molteplici e il livello qualitativo si abbassa. Troppo.

O forse sono io troppo esigente.

Dan Abnett: da lui c'è solo da imparare
So che sto scrivendo un romanzo di fantascienza militare (quasi finito, per la verità) e il lavoro sull'ambientazione, la sua coerenza e i suoi equilibri è stato tanto soddisfacente quanto intenso. Ma doveroso tanto quanto passare il correttore ortografico a fine scrittura. Ah, già. Dimenticavo che in commercio si trovano anche romanzucoli di persone che mettono la punteggiatura dopo lo spazio. E i "signori editori" che hanno pubblicato queste cose hanno scelto di tralasciare queste inezie. Però non voglio sembrare eccessivamente polemico (lo sono). Il fatto è che creare un'ambientazione che funzioni e che "giri" è un investimento notevole in termini di tempo ed energie, ma ripaga. Se il setting si regge da solo, infatti, nulla vieta di usarlo una seconda volta, una terza, una quarta... È così che nascono le saghe. È così che i grandi cicli narrativi possono prosperare e ci sono moltissimi esempi (la mitologia di Tolkien, L'Era Hiboriana di Howard, l'impero galattico di Frank Herbert solo per citare i primi che mi vengono in mente). Lo sa bene la Black Library che produce moltissimi libri nell'universo della Games Workshop. Alcuni brutti, altri mediocri, altri davvero notevoli.

A me piace particolarmente Dan Abnett, che sta portando avanti la saga di Gaunt e dei Ghost di Tanith. Abnett ha preparato tutta la Sabbath Crusade. E funziona, ha una sua coerenza. Tanto che in questa ambientazione sono collocati vari spin-off e differenti storie.
Non si può non apprezzare una profondità e una preparazione simili.

E poi scrive benissimo.






1 commento:

  1. Premessa: hai ragione.
    Però voglio fare un po' l'avvocato del diavolo perché un po' mi sento piccato.
    Il caso che voglio difendere e che citi è veramente estremo (ovvero Rivargento e Greysteel) ma ho avuto a che fare con una cosa simile: mi hanno cioè detto che era un errore dare nomi inglesi alle armi e nomi gaelici agli elfi.
    La mia difesa si basa sul fatto che un nome sia gaelico e l'altro inglese è un fatto extra-narrativo: si tratta di una conoscenza culturale che il lettore aggiunge alla narrazione, di suo pugno. Era stato chiesto questo sforzo? Era stata richiesta l'aggiunta di tale conoscenza? Non lo so, io all'interno della narrazione non ho specificato nulla e non mi sono proprio posto il problema: nel mio mondo non esistono né la lingua gaelica né quella inglese. Quindi, nell'esempio, "Gwyllywm" e "Stormwind" appartengono alla medesima lingua, l'elfico. Tu, lettore, devi credere a quello che ho scritto, non aggiungerci del tuo per dimostrare che ho sbagliato.
    Possono un nome gaelico e uno inglese convivere o è un errore? La risposta giusta è questa: esistono bambini gallesi con nome gaelico e cognome anglofono. E anche sulla cartina dell'Inghilterra (pardon, del Regno Unito) i nomi coesistono: puoi prendere la A483 per andare da St.Martin's a Cefn-mawr senza porti troppi problemi sul perché uno è impronunciabile e l'altro anche.
    Se apri google maps "Arabia Saudita" lo trovi scritto con un set di caratteri che mi risulta difficoltoso riportare. Anche in italiano abbiamo nomi poco coerenti. Nella pianura padana molti paesi hanno il nome che finisce in -ano. Non ridere. Vigev-ano, Mil-ano, Bibbi-ano. Molti finiscono in -ate. Vimercate, Linate, eccetera. Incongruenza? Hanno origine diversa, quelli in -ate hanno origini celtiche, gli altri no.
    Parma agli albori del medioevo si chiamava Crisopoli: compatibile con la nostra lingua ma bizantino. Se fosse rimasta così ora non noteremmo nulla di strano. Divagazione: da una parte ho scritto "statua crisoelefantina" e mi hanno detto che scrivo desueto.
    Regina Coeli non la pronunciamo nemmeno nella nostra lingua.
    Riassumendo: credo che dovremmo badare di più alla sostanza. Se c'è anche la forma meglio. Il tuo sfogo è però legittimo, perché badando anche alla forma, avremmo prodotti migliori. O almeno ci spiegheremmo perché certi autori vengono osannati.
    Lo ripeto, ho fatto l'avvocato del diavolo. ;-)
    Ah, una cosa, in un romanzo, quando descrivevo i cannoni inglesi ho usato il calibro espresso in pollici, quando descrivevo un'arma tedesca o francese ho invece usato i millimetri, perché avevano sistemi metrici diversi. Giusto, sbagliato, che ne so? E' un problema dello scrittore? Dell'editor? Di chi legge? E' un problema? Il calibro è giusto, la narrazione è coerente. Fila, è leggibile, è godibile. E allora continuiamo a leggere: non guardiamo il dito, indica qualcosa...

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